Il Mito dei Beatles
Come hanno fatto quattro semplici ragazzi di Liverpool ad assumere i contorni di un vero e proprio Mito moderno? Il mito dei Beatles, ovvero Soffritti, Campbell, Moby Dick e Robert Laing.
- IL MITO DEI BEATLES: DA SOFFRITTI A CAMPBELL
- UNA CURIOSA ANTICIPAZIONE
- PLEASE PLEASE ME, L’EDEN DEL “NOW”
- LA CADUTA
- IL MITO DEI BEATLES E IL MONDO ARTURIANO
- IL MITO DEI BEATLES E L’ANTIPSICHIATRIA
- REVOLVER, LA DISCESA AGLI INFERI
- SGT. PEPPER, LA CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE
- A DAY IN THE LIFE
- DOPO SGT. PEPPER
- WHITE ALBUM, UN PALLORE MARMOREO
- LA FINE?
- ABBEY ROAD, LA CADUTA DELLA MASCHERA
- LA CHIUSURA DEL CERCHIO?
IL MITO DEI BEATLES: DA SOFFRITTI A CAMPBELL
Le teorie alla base di questo articolo nascono da quelle esposte da Daniele Soffritti in un libro cult: I Beatles, dal mito alla storia, pubblicato da Savelli nel 1980.
Il testo è fuori catalogo ma, con un po’ di pazienza, si trova ancora abbastanza facilmente nel circuito online dell’usato.

L’articolo che segue è un lungo estratto proveniente da una tesi di laurea dal titolo The Long And Winding Road; Elementi di Poesia Beatlesiana pubblicata nel 2008.
Ogni commento o riflessione a proposito di quanto scritto nelle pagine seguenti è bene accetto.

Joseph Campbell, noto al grande pubblico per la ripresa di molte delle sue teorie nella saga di Star Wars, è stata una figura fondamentale per lo studio della mitologia antica e non solo. Altri due interessanti libri di Campbell, editi in Italia, sono Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers e Le Maschere di Dio; segnalo il corposo lavoro che analizza in ogni singolo testo una mitologia specifica di un dato periodo storico, inaugurato con Mitologia Primitiva e pubblicato da Mondadori.
UNA CURIOSA ANTICIPAZIONE
Daniele Soffritti (I Beatles, dal mito alla storia) vede nella parabola beatlesiana lo stesso percorso che Joseph Campbell rintraccia in svariati racconti mitologici provenienti dalle più disparate culture. Questo itinerario archetipo fa riferimento a una figura centrale, quella dell’eroe, che abbandona un mondo in decadenza e intraprende un viaggio alla ricerca di un principio vitale per sé e per la sua comunità.
Già Samuel R. Delany, acclamato scrittore di fantascienza, aveva in un certo qual modo mitizzato i Beatles nel suo libro The Einstein Intersection (pubblicato da Fanucci col titolo Una Favolosa Tenebra Informe).

Delany, tramite le parole di un essere del futuro, paragona il “Mito” dei Beatles (Ringo in particolare) a quello di Orfeo. Le fan urlanti che nei concerti e per la strada “fanno [metaforicamente] a pezzi” i Fab Four sono accomunate alle Baccanti che smembrano il corpo del musico greco. Invece Euridice, la donna di Orfeo, sarebbe Maureen, la prima moglie di Ringo. Anche se in modo diverso siamo di fronte a due personaggi che perdono il loro amore.
Come vedremo più avanti, l’impossibilità di coprire con la musica le urla eccitate delle ragazzine e l’aggressività con cui i quattro di Liverpool venivano incalzati nelle loro apparizioni pubbliche furono alcuni dei motivi che li portarono alla decisione di rinunciare per sempre ai concerti dal vivo. Che li portarono simbolicamente a emigrare in un altro piano dell’esistenza, nello stesso modo in cui Orfeo dovette scendere agli inferi per tentare di salvare la sua amata.
Secondo lo
stesso Soffritti la rinuncia alla dimensione “live” dei quattro di Liverpool si
configurerebbe come una vera e propria discesa in una nuova dimensione; dove l’integrità
del mondo fino allora conosciuto è ormai smarrita e il tocco edenico degli
albori è già solo un ricordo.
The Einstein Intersection è del 1967.
E la “caduta” era, cosciente o no Delany stesso, già cominciata.
PLEASE PLEASE ME, L’EDEN DEL “NOW”

L’dea di far sporgere i ragazzi dal balcone è di Angus McBean, il fotografo che diede vita alla copertina dell’album.

La foto di copertina fu ispirata dalla vena artistica di Astrid Kirchherr, amica dei quattro. Astrid è una figura poco conosciuta ai più ma fondamentale per definire il background culturale dei Beatles. Fu lei, durante il periodo amburghese, a introdurli alle tematiche dell’esistenzialismo, che poi vennero rielaborate originalmente nei dischi successivi
Per Soffritti i primi dischi dei Beatles, Please Please Me e With The Beatles, evocano un “universo-eden” dove non c’è ostacolo tra desiderio e appagamento. Il tempo non esiste e tutto si svolge nella dimensione dell’immediatezza; del “now”. Questo anche se, dobbiamo notare, alcune tematiche legate a insoddisfazione e inadeguatezza già si affacciano dal primo disco; soprattutto nella scrittura di Lennon.
Dal canto suo Ian MacDonald, grande biografo dei quattro di Liverpool, parla, in riferimento all’esperienza beatlesiana, proprio di “now” postcristiano.
Le generazioni precedenti erano state caratterizzate da un accorto, disciplinato risparmio basato sulla programmazione del futuro e sul freno dei desideri. […] Buona parte di questa reazione [la rivoluzione del now] deriva dall’incapacità della Chiesa di offrire alle comunità locali niente di più che un punto d’incontro settimanale. Con la promessa individuale dell’immortalità, il cristianesimo aveva indirizzato per secoli l’interesse dei fedeli alla ricompensa futura piuttosto che all’ingiustizia presente.
Ian MacDonald

Per capire a fondo la poetica e il contesto sociale in cui operarono i Beatles questa è una lettura che non può assolutamente mancare. È diviso in paragrafi che affrontano una per una tutte le canzoni registrate dai Beatles. Da qui partono poi emozionanti e stimolanti approfondimenti che abbracciano tutte le sfaccettature dell’universo Beatles.

Fa piacere notare che alcuni spunti interessanti per dare sostanza alla teoria soffrittiana giungano anche da volumi non specialistici sui Beatles.
Anche Casalini e Corticelli, del resto, scrivono, non casualmente, di “Eden degli esordi” per quanto riguarda le prime produzioni dei Beatles.
LA CADUTA
Secondo Soffritti il tema dei brani è lo stesso rapporto tra Bealtes (“I”, io nei testi) e pubblico (lo “you” delle canzoni). Sempre secondo il critico in questa fase saremmo di fronte a una comunicazione “non letteraria”, orale, che si concretizzerebbe nel momento del concerto stesso.
Anche dal punto di vista stilistico, in fondo, la prima musica beatlesiana è istintiva, immediata. Le sue caratteristiche dipendono dal fatto che essa affonda le sue radici in una tradizione antecedente a quella del blues classico, quello schiettamente americano.

In A Hard Day’s Night compare, come se fossimo di fronte a una cacciata dal Paradiso, la fatica. Nelle tematiche affrontate fa capolino qualcosa di nuovo; il sentimento del tempo.
Se mi innamorassi di te
mi prometteresti di essere sincera
e di aiutarmi a capire?
Perché sono stato innamorato altre volte
e ho scoperto che l’amore è qualcosa di più
che tenersi la mano
[If I Fell]
John Lennon
Il riferimento alla stretta di mano non appare casuale. “E quando ti tocco mi sento felice…” cantavano i Beatles in I Want to Hold Your Hand. Ma adesso quel tocco non può essere più disincantato come prima. John Lennon, autore del testo, “vede” il passato. Le sue azioni sono mediate dalla paura delle esperienze precedenti e questo comporta l’impossibilità di una fiducia totale nei confronti dell’altro. Il tocco edenico non può essere replicato.
Se prendiamo in esame un pezzo scritto da Paul McCartney, allo stesso modo, possiamo notare un claustrofobico ripiegamento su sé stessi, sottolineato dagli incalzanti accordi in tonalità minore. In Things We Said Today, infatti, il tempo stesso dell’oggi viene visto da una prospettiva diversa del “now”, come se fosse giù un ricordo.
I Beatles, almeno i loro due autori di punta, sembrano muoversi all’unisono. Lo stesso MacDonald, in riferimento al loro modo di comporre e di stare al mondo, fa riferimento, per questo periodo, a una vera e propria “collettività psicologica”.
I Fab Four a questo punto della loro evoluzione sono già fuori da quella dimensione “magica” che caratterizzava le loro prime esibizioni live, quando erano tutt’uno con il loro pubblico e probabilmente a una sorta di vetta a livello di intesa tra i membri della band.
Una coincidenza particolare fu che l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963, Dallas) avvenne proprio nel giorno dell’uscita del secondo disco dei Beatles (With the Beatles); quindi a dividere il periodo “edenico” da quello più introspettivo. Ovviamente questo non fu il motivo principale per cui le tematiche beatlesiane presero una nuova disillusa direzione (una delle cause fu ad esempio l’insostenibilità della pressione che i quattro ricevevano quotidianamente); probabilmente, però, la morte di un personaggio su cui erano proiettate collettivamente tante speranze di rinnovamento sociale contribuì in parte ad accentuare ombre già presenti nell’universo beatlesiano.
IL MITO DEI BEATLES E IL MONDO ARTURIANO
Un’altra importante data per definire la storia dei Beatles è stata quella del 28 Agosto 1964 (Delmonico Hotel di Manhattan, New York). Quel giorno i quattro di Liverpool incontrano di persona per la prima volta un certo Bob Dylan. Le leggende sono tante in merito… sicuramente il nostro Premio Nobel ha esercitato su di loro una grandissima influenza a livello di contenuti (e testi); specialmente su John Lennon. Nel cuore di McCartney invece, a livello di influenze e “contaminazioni”, potremmo assegnare un posto d’onore a un altro grande mostro sacro della musica contemporanea: Brian Wilson, geniale ed eccentrico compositore di punta dei Beach Boys.
Per approfondire i capitoli della sfida artistica che ha coinvolto i baronetti di Liverpool e la band californiana in una sorta di volano giocato per buona parte della loro carriera, e probabilmente, per quanto riguarda Paul come membro dei Beatles, fino ad alcune delle ultime note suonate, bisognerebbe scrivere un libro a parte.
Tornando a Dylan: pare che Bob, all’anagrafe Robert Allen Zimmerman, abbia dischiuso ai quattro il mondo allegro della Marijuana (i ragazzi poi approfondirono la questione facendo uso anche di forti allucinogeni come LSD e simili), contribuendo in parte a dare una spinta verso la disgregazione interiore che gli stessi stavano già sperimentando sulla loro pelle.

La “scissione” è in pieno svolgimento. Non è più possibile rintracciare, nel mondo e in se stessi, quella che Kohler (autore di un fondamentale studio sull’epopea arturiana) definisce “ la sicurezza di fondo nella comprensibilità dell’esistenza”:
Il mondo arturiano, modello fittizio e sogno nostalgico di reintegrazione, in quanto archetipo della comunità, rappresenta alla lunga ormai solo uno dei due poli che il cavaliere del XII secolo riconosce come costitutivi della sua natura, anche se vissuti in maniera problematica.
Erich Kohler
In questa prospettiva è facile allora vedere i Beatles nel periodo che va da A Hard Day’s Night a Rubber Soul, gli ultimi tre lavori prima degli Studio Album. Durante questa fase i nostri Eroi “fluttuano” tra due poli opposti; tra la rievocazione dei propri esordi e un’alienazione, dal punto dei vista dei temi e delle scelte artistiche, che gli precluderà per sempre il “tocco edenico” delle origini, dove interno ed esterno e reale e ideale combaciavano perfettamente.
IL MITO DEI BEATLES E L’ANTIPSICHIATRIA

Anche Ronald Laing fu fortemente influenzato dalle tematiche esistenzialista nel delineare la sua concezione di psichiatria.
Si designa col termine “schizoide” un individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l’ambiente, e nei rapporti con se stesso. Da una parte questo individuo non è capace di sentirsi insieme con gli altri, né di partecipare al mondo che lo circonda, ma, al contrario, si sente disperatamente solo e isolato.
Ronald Laing
Curiosamente ci troviamo di fronte a quello che è stato considerato lo psicologo dei Beatles. E, ancora più curiosamente, lo stesso Laing definì l’esperienza della persona schizofrenica come “”un viaggio a ritroso, sempre più in profondità nella propria storia individuale, giù giù e indietro attraverso e oltre l’esperienza di tutta l’umanità, fino al primo uomo, fino ad Adamo e forse anche al di là, dentro l’essere degli animali, dei vegetali e dei minerali.”
Il comportamento degli schizofrenici è per lo stesso Laing un “dramma esperienziale interiore”.
Citando da La Londra dei Beatles di Colaiacomo e Caratozzolo:
Invece di essere il centro del vero io, il corpo diviene il centro di un io falso, che l’io “ vero”, o “interiore”, incorporeo e distaccato, contempla, a seconda dei casi, “con tenerezza, con curiosità, con odio”. Una condizione, come possiamo notare, di perfetta teatralità […]. È evidente invece che chi così parla vorrebbe piuttosto abolire la teatralità che trova iscritta nell’io, risanarne la ferita perseguendo l’utopia di un edenico, pacificatore ricongiungimento delle due metà separate.
Paola Colaiacomo, Vittoria Caterina

Il libro è interessantissimo perché delinea un quadro molto ampio e variegato delle esperienze artistiche che hanno caratterizzato la cultura “pop” degli anni 60, approfondendo aspetti che spesso non vengono presi in considerazione dalla critica musicale.
Facciamo attenzione quindi al concetto di “teatralità” e soprattutto al fatto che si dà come necessario alla guarigione dello schizofrenico un “viaggio a ritroso che porti al ricongiungimento di unità separate”.
La frequentazione del movimento antipsichiatrico (lo stesso di Laing) e l’esperienza col Maharishi rendono chiaro il fatto che i Beatles avessero ben presente questa necessità di “liberazione”.

Il titolo dell’album è emblematico, forse i Beatles, magri inconsciamente, vogliono suggerire la loro stessa completa mercificazione e l’addio definitivo alla dimensione spensierata degli esordi?

Il messaggio di fondo è chiaro sin dalla copertina, anche se tutto viene camuffato dall’incalzante beatlemania in pieno svolgimento e dalla comunicazione scanzonata dei quattro.
Possiamo considerare Beatles for Sale, Help! e Rubber Soul dischi composti in un periodo fluttuante, dove si alternano vecchio e nuovo corso.
Nel brano Help! è chiara ed esplicita la richiesta di aiuto (rivolta al suo stesso audience?) di una persona che sente di aver smarrito in un certo senso la via; ma anche altri pezzi, nell’ottica di un sofferto ripiegamento sul passato e di una scissione interiore, meritano una menzione particolare. Pensiamo soprattutto a Yesterday e a In My Life (la prima di McCartney, l’altra di Lennon); due brani indicativi di una tendenza a ritornare sul tempo andato. Due ideali viaggi verso il passato.

Un anima di gomma potrebbe essere quella degli stessi Beatles. Come è alienata e distante dal mondo l’anima del Nowhere Man, alias John Lennon, che compare in un pezzo fondamentale del disco.
In My Life doveva essere in principio una rassegna di tutti i luoghi amati da John durante infanzia e adolescenza. In questa fase il “viaggio” all’interno del proprio io pare non possa prescindere da un ricongiungimento con un luogo reale vissuto nel passato.
I Beatles probabilmente toccarono l’apice da questo punto di vista più tardi, con il singolo Strawberry Fields Forever/Penny Lane. Anche qui ci troviamo di fronte a pezzi di entrambi gli autori di punta, Lennon e McCartney e al cospetto di tematiche molto simili (ricordate la collettività psicologica?).

L’espressione “nothing to get hang about”, spesso interpretata come contrazione di “niente di cui avere paura” o “niente per cui attendere” potrebbe in realtà riferirsi a un episodio particolare dell’infanzia di John. Sua zia Mimi gli avrebbe vietato di giocare dalle parti dell’orfanotrofio. “They can’t hang you for it” avrebbe risposto John, “non possono impiccarti per questo”.
In Strawberry Fields Forever (il nome viene dal parco di un orfanotrofio in cui John giocava da ragazzino) assistiamo, per riprendere le parole di Laing, alla teatralizzazione di un IO scisso, smarrito in una nebbia ossessionante. La realtà non può essere espressa, è confusa; come lo è la mente di chi canta, incapace di distinguere tra sogno e realtà.
Per sempre, no, per qualche volta, pensa che sono io,
ma tu sai che io so quando è un sogno.
Penso un “no”, voglio dire un “si”.
Ma è tutto sbagliato, cioè penso di non essere d’accordo.
Lascia che ti porti con me,
perché sto andando verso i Campi di Fragole.
Niente è reale…
[Strawberry Fields Forever]
John Lennon
Ecco lo schizofrenico laingiano; partecipe di un viaggio verso la sua primordialità.
E forse l’invito che lancia a seguirlo è rivolto agli stessi antichi partecipanti del rito beatlesiano. Quello stesso “you” che un tempo veniva raggiunto dal tocco edenico di I Want to Hold Your Hand.
Anche in Penny Lane siamo di fronte alla rievocazione di un luogo dell’infanzia dei Beatles, di Paul nello specifico; e anche qui siamo di fronte a una teatralizzazione e a una decisa commistione di realtà e immaginazione, a dire il vero più “solare” rispetto alle atmosfere cupe di Strawberry Fields Forever.
Secondo Soffritti i Beatles ancora non si sono rassegnati, in questa fase (che approfondiremo in seguito), a perdere quel contatto diretto e orale che avevano con il loro pubblico del primo periodo.

Facendo un salto indietro; Nowhere Man, brano presente in Rubber Soul (lo stesso album di In My Life). A detta dello stesso John “una canzone autobiografica”.
È proprio un uomo inesistente,
seduto in una terra inesistente,
a far progetti inesistenti che non sono destinati a nessuno.Non ha un’opinione sua,
non sa dove va,
non assomiglia un po’ a te e a me?Uomo inesistente, per favore ascolta,
tu non sai cosa ti stai perdendo
Uomo inesistente, il mondo è ai tuoi piedi.Ma l’Uomo inesistente è cieco,
John Lennon
e vede solo quello che vuol vedere.
Uomo inesistente, proprio non riesci a vedermi?
Uomo inesistente, non darti pena,
prenditela calma, non ti affrettare,
lascia perdere tutto, fino a che qualcuno non ti darà una mano.
[…]
Come in Help! viene espressa, nelle ultime righe, una non velata richiesta d’aiuto. Da notare la somiglianza dei versi finali con quelli dell’ultimo brano registrato da Lennon, poco prima di essere assassinato.
Caro John,
non essere duro con te stesso
concediti una tregua
la vita non era concepita per essere affrontata di corsa
ma la corsa è finita, e tu hai vinto.
[Dear John]
John Lennon
Tornando a Nowhere Man; vediamo alcuni passi, molto calzanti, estrapolati dall’Io Diviso di Ronald Laing:
Se, per esempio, un uomo afferma di essere irreale, […] non c’è dubbio che venga considerato delirante. Ma cosa significa, esistenzialmente il suo delirio?
[…] Egli può essere qualcuno soltanto in quello che vediamo noi: e se quello che vediamo noi, le sue azioni, non sono il suo vero io, allora egli è irreale davvero […].
Così, nella sua vita, la sua condizione esistenziale è diventata vera: ciò che è vero esistenzialmente diventa vero in realtà.
È realmente e letteralmente morto, non già in modo simbolico o “in un certo senso” o “per modo di dire” […].
Ronald Laing
McCartney disse che numerosi pazienti dello stesso Laing andavano a trovare i Beatles durante le sedute di registrazione. Secondo Paul “era proprio lui che li mandava”.
Chi meglio di un simile del paziente avrebbe potuto comprendere e svelare il dissidio interiore che veniva “teatralizzato” dal paziente stesso?
In In My Life si affaccia per la prima volta esplicitamente il tema della morte, quando John parla di amanti e amici del passato (“alcuni sono morti e altri vivono…”). Una nuova “coscienza” di se stessi porta inevitabilmente i Beatles alla scoperta della deperibilità di ogni cosa, della natura corrotta del mondo e dell’esistenza. E questa rinnovata prospettiva li condurrà, successivamente, a fronteggiare la loro sfida più grande; la ricerca della chiave del ricongiungimento tra ideale e reale.
REVOLVER, LA DISCESA AGLI INFERI

Il 29 Agosto 1966, a San Francisco, i Beatles tengono il loro ultimo concerto davanti a 25000 persone.
Decideranno poi di non esibirsi più live; minacce di morte, un incidente diplomatico a Manila e la difficoltà riscontrata nel sentire il suono della propria musica sopra le urla del pubblico (con conseguente impossibilità di progredire come musicisti dal vivo) furono alcuni dei motivi che li portarono a maturare questa decisione.
Revolver fa la comparsa nei negozi di dischi qualche giorno prima, il 5 Agosto.
Ricordiamoci il mito di Orfeo chiamato in causa da Delany; egli, per ricostruire l’armonia, è costretto a portare la sua musica agli inferi.
E ricordiamoci cosa scrive Soffritti chiamando in causa il Campbell dell’Eroe dai Mille Volti: La figura centrale del monomito è quella di un eroe che abbandona un mondo decadente, corrotto, per rintracciare un principio salvifico per se stesso e per la sua comunità. Il suo ritorno si configurerà come una vera e propria “rinascita dalla morte”, sia essa reale o metaforica.

L’interruzione delle apparizioni live, la trasmissione della loro immagine virtuale attraverso il cinema […] porta i Beatles ad una separazione dalla comunità, dal gruppo originario della beatle-people. Si apre una terza fase, di isolamento, di discesa agli inferi. Per rinascere i Beatles dovranno trovare una nuova intesa vitale con un pubblico che è ormai diventato ipotetico, sconosciuto.
Daniele Soffritti
Quindi fino ad adesso si è delineato questo percorso:
MONDO EDENICO (IDEALE) –> MESSA IN QUESTIONE, MONDO REALE (CORRUZIONE) –> NECESSITA’ DEL VIAGGIO (DISCESA AGLI INFERI) PER LA RICOSTITUZIONE DELL’IDEALE PRIMIGENIO
In realtà il viaggio che i Fab Four intraprenderanno è destinato allo scacco già in partenza.
Se ci rifacciamo al già citato L’Avventura Cavalleresca apprendiamo che più realtà e ideale si allontanano, tanto più l’impresa diventa utopica. L’Eroe deve riconquistare un’unità di senso, ma per farlo deve prima liberarsi dalla sua alienazione; e deve anche liberarsi dalla realtà storica (il reale), superandola definitivamente.
In Revolver la maggior parte dei pezzi accolgono il tema della solitudine o di una realtà completamente alienata.
Ah, guarda tutta la gente sola
ah, guarda tutta la gente sola.Eleanor Rigby raccoglie il riso nella chiesa
dove c’è stato un matrimonio.
Aspetta alla finestra con indosso il viso
che tiene in serbo in una caraffa vicino alla porta,
per chi lo fa?Tutta la gente sola, da dove viene?
[…]Padre McKenzie scrive le parole di un sermone
che nessuno sentirà,
nessuna si avvicina.
Guardalo mentre lavora,
che rammenda i suoi calzini nella notte
quando non c’è nessuno.
Di chi si preoccupa?[…]
Eleanor Rigby morì nella chiesa
e la seppellirono sotto una lapide col suo nome.
Nessuno venne.
Padre McKenzie si allontana dalla sepoltura
pulendosi le mani dalla terra.
Nessuno fu salvato.[…]
Paul McCartney
Secondo MacDonald siamo di fronte alla “singola immagine” più memorabile di tutta l’opera dei Beatles:
Il romanziere A.S. Byatt, secondo il quale questo testo [Eleanor Rigby] possiede “la perfezione minimalista di un racconto di Beckett”, mette in evidenza che, se il “viso” di Eleanor fosse stato conservato in un barattolo vicino a uno specchio, avrebbe suggerito la meno disturbante idea del makeup. Invece, l’immagine implica la considerazione che dietro la sua porta, dentro casa sua, miss Rigby “è senza volto, è niente”.
Ian MacDonald
Altri passi importanti sull’analisi del pezzo:
La “ morte” dei Beatles non è solo nel dare un volto alla solitudine focalizzando gesti tipici, ritualistici che indicano la drammatica esclusione dei personaggi dalla comunità […] ma piuttosto nell’esclusione degli stessi Beatles dall’essere protagonisti della canzone. A livello musicale ad esempio, è rilevante l’introduzione di una sezione d’archi, che mostra i Beatles perdere il controllo diretto sullo strumento musicale che, fino a questo momento, poteva essere visto come attributo fisico, estensione del proprio corpo.
Ciò che si perde è la normale situazione di dialogo che vede l’autore del messaggio in prima persona inviare un segnale al ricevente in seconda persona.
Abbiamo in parte conferma delle nostre teorie se teniamo conto del fatto che “padre McKenzie”, in una prima stesura, era in realtà “padre McCartney”. Anche da questo punto di vista siamo di fronte al mascheramento dell’autore (forse nello stesso modo in cui si “maschera” Eleanor Rigby?) e a una dimensione artistica non più orale e immediata ma mediata e più spiccatamente letteraria. La fruizione della musica stessa dei Beatles, forse, comincia a diventare un esperienza più individuale, artificiosa, solitaria.
Come afferma ancora lo stesso MacDonald:
Il tema della morte è esplicito […], ma ancora più indicativo della morte dei Beatles è il mascheramento dell’autore, la perdita della sua identità reale nella finzione […]: la morte è nell’isolamento che presiede ad ogni discorso letterario.
Altro pezzo cardine del disco e di tutta la produzione Beatlesiana è Tomorrow Never Knows. Il testo della canzone viene dritto dritto dal Libro Tibetano dei Morti. Questo antico testo descriverebbe l’esperienza che vive l’anima in quel periodo che passa tra morte e rinascita. E l’ubicazione della canzone in fondo alla tracklist la denoterebbe come un vero e proprio “ponte” proiettato verso una nuova dimensione dell’essere. Come se i Beatles fossero effettivamente morti e stessero cercando una rinascita.

Altra piccola grande curiosità: il primo disco dei Beatles si apre con il “one, two, thre, four!” euforico e scanzonato di Paul; nei primi secondi di Revolver, invece, possiamo ascoltare una voce artificiale e impersonale contare per due volte fino a quattro. Sembrerebbe, questo, un ulteriore sintomo della spersonalizzazione in atto e della perdita di genuinità dei quattro.
SGT. PEPPER, LA CONCILIAZIONE IMPOSSIBILE

Tra le grandi innovazioni che portò Sergeant Pepper ve ne è una poco segnalata: l’introduzione, nella confezione del disco, del libretto con i testi delle canzoni. Come a rimarcare l’avvenuta perdita della dimensione “collettiva” della musica dei Beatles, adesso più indirizzata a una fruizione intimistica. E non è un caso che il titolo dell’album faccia proprio riferimento a una contraddizione evidente come quella di una band di cuori “solitari”.
Paul definì “liberatorio” il gioco di travestimenti alla base di Sgt. Pepper; “Non ne potevamo più di essere i Beatles”.
Le canzoni dell’album rendono esplicito il bisogno dei quattro di riappropriarsi di una dimensione teatrale e diretta; ma il contatto, in fondo, non avviene mai realmente.
Pensiamo ad esempio al brano di apertura, dove “assistiamo” a un vero e proprio happening. Dovremmo essere in presenza di qualcosa di immediato, unico e comunitario. Abbiamo l’impressione di far parte dell’uditorio che rumoreggia in sottofondo. Il cortocircuito, tuttavia, è dato dal fatto che in realtà noi siamo su un piano diverso, sentiamo ridere la folla ma non ne conosciamo il motivo. Siamo su un piano limitato, mediato da quello che è il nostro libro (lo stesso booklet con i testi delle canzoni e le immagini di Pepperlandia?); un piano letterario appunto.
Senza interruzioni si passa al secondo brando del disco, With a Little Help From My Friends. Qui si oscilla tra l’evocazione di una dimensione comunitaria, totale, e un fugace riferimento (confermato da Paul) alla masturbazione.
Poi abbiamo Lucy In the Sky With Diamonds, dove la figura centrale del teso appare e scompare senza che la si possa afferrare. Un reale contatto non avviene neanche qui.
Anche in Getting Better abbiamo un tensione ottimistica verso il futuro, ma in realtà il vero cambiamento, lo stabile raggiungimento di una meta ideale sembra non concretizzarsi mai.
Sotto la superficie del multi colorato universo pepperiano sono ancora rintracciabili i temi della solitudine, della paura, della corruzione del tempo.
Insomma; tutte le forme della disillusione presenti nei Beatles post-edenici sono ancora presenti.
Non compare una sola canzone d’amore […]; più che l’amore e l’unione estatica di gruppo, nel concerto di Pepper emerge la solitudine degli autori e quella di un pubblico immaginario sollecitato ironicamente all’identificazione […].
Daniele Soffritti
Il fatto che dal punto di vista iconografico e musicale si faccia riferimento a forme espressive tradizionali, continua Soffritti, sarebbe indice di un vero e proprio tentativo di esorcizzazione della storia, del tempo stesso. Il passato verrebbe attualizzato proprio sradicando i segni del tempo dal loro contesto.
La “tragedia dell’esclusione”, sempre secondo il critico musicale, vista in Revolver sembrerebbe in Sgt. Pepper farsi commedia e promettere ai Cuori Solitari la rinascita in un nuovo Eden.
Ha detto Paul McCartney, riferendosi ai primi pensieri che ebbe a riguardo della copertina del disco:
Ebbi l’idea di stare in un parco e di avere davanti a noi un enorme orologio floreale che è sempre una delle grandi attrazioni di tutti quei parchi: Harrogate, dovunque, ogni parco in cui vai ha il suo orologio floreale. Eravamo seduti a parlarne: “Perché fanno un orologio con i fiori?”. Molto concettuale, non si muove mai, si limita a crescere e perciò il tempo non esiste […].
Paul McCartney
In realtà l’orologio floreale non compare da nessuna parte, ma questa è un’altra storia.
A noi interessa avere la conferma che, ancora con le parole di Soffritti, Sgt. Pepper può configurarsi, nella nostra visione, come un grande rituale esorcistico che ha la funzione di liberarsi dall’angoscia della Storia (quella con la “S” maiuscola ma anche quella degli stessi Beatles).

Andiamo adesso a riprende un autore già ampiamente citato in questo articolo, il Kohler dell’Epopea Cavalleresca:
L’epopea cortese, constatata l’impossibilità di dotare la realtà di un senso a causa della sua disgregazione, deve creare un’unità di fondo affinché possa attuarsi la parziale realizzazione dell’armonia del mondo. Questo può accadere grazie all’anticipazione fiabesca e utopica di un mondo ideale.
Il creatore del romanzo arturiano elabora un frammento di questa totalità ideale che nel contenuto e nella forma contiene la realtà alienata nella sua interezza […].
Erich Kohler
Come abbiamo potuto osservare, nel mondo ideale del Sergente Pepe perdurano i temi post-edenici e le figure degli stessi Beatles alienati (ad esempio nella copertina, dove i vecchi Fab Four sono rappresentati dalle loro statue di cera).
Se Revolver e gli album precedenti costituivano la messa in scena di una scissione interiore ed esteriore, di una morte immaginaria e reale, Sgt. Pepper “testimonia la presa di coscienza che è possibile superare questa scissione e anticipa così al tempo stesso la fine dell’azione”. E lo fa grazie alla “saldatura della vita all’ideale” con “un’azione conclusiva e risolutoria”.
Continuando il paragone tra Sgt. Pepper e l’esperienza del romanzo arturiano: il superamento reale della contraddizione può avvenire solo annullandosi tutto ciò che si contraddice, quindi mettendo fine alla Storia (Kohler).
Nel romanzo del Graal (Il Perceval, ultimo grande romanzo arturiano), come in Sgt. Pepper, l’alienazione divenuta assoluta non può più essere debellata dal mondo ideale (per i Beatles corrispondente all’Eden degli inizi), però, può essere superata con un moto violento che metta fine al tutto. Che metta fine alla Storia.
A DAY IN THE LIFE
A Day In The Life, sebbene chiuda Sgt. Pepper, è stato il primo brano a essere elaborato, se si esclude When I’m Sixty Four.
Per MacDonald il pezzo è una canzone di disincanto nei confronti della percezione terrena. Il mondo reale non sarebbe altro che un’ottusa struttura che soggioga, umilia e infine annienta. La frase “I’d love to turn you on” costituirebbe il punto focale del pezzo.
Il messaggio [in A Day In The Life] è che la vita è un sogno e noi abbiamo il potere, in quanto sognatori, di renderla meravigliosa. In questa prospettiva, i due glissando orchestrali ascendenti possono essere visti simboleggiare simultaneamente il momento del risveglio dal sonno e l’ascesi spirituale dalla frammentarietà all’integrità, conseguita nell’accordo finale di mi maggiore.
Ian MacDonald
In effetti sono dell’idea che il testo faccia riferimento a due diversi piani e a due voci distinte. Credo che vi siano due entità separate che non riescono a comunicare perché si trovano su diversi gradi di coscienza. E se prendiamo in considerazione quanto scritto fin ora sembra tornare tutto; la non comunicazione infatti (non) avviene proprio tra i piani del reale e dell’ideale. Anzi qui, a differenza del mondo di Pepper, dove il mondo utopico e quello concreto convivono sullo stesso piano, il reale e l’ideale tendono a separarsi definitivamente.
Le parti cantate da Paul riproducono, nel testo e nello stile, il quotidiano senso di affanno dell’esistenza umana. L’unica via di uscita è il sogno, nel quale si può solo intuire “l’altra voce”.
Le due strofe cantate da Lennon invece rivelano un disinteressato distacco dalle vicende del mondo; la morte è salutata con un sorriso, le parole ci appaiono illogiche, totalmente incomprensibili dal nostro punto di vista.
Soprattutto nella seconda strofe lennoniana il linguaggio vira sempre di più verso una “smaterializzazione delle cose”.
Prendiamo in prestito quest’ultima frase da Massimo Cacciari, per la precisione da un saggio che prende in analisi La Torre di Hugo von Hofmannsthal (1925).
L’opera del drammaturgo tedesco riprende a sua volta li tema di La Vita È Sogno di Calderon de la Barca (ricordiamoci la lettura di MacDonald) e le parole del suo protagonista, Sigmund, come quelle di Lennon, serviranno nel finale dell’opera a mettere a nudo il limite degli altri linguaggi con cui vengono in contrasto; in questo caso (ma anche in Sgt. Pepper) quello della materialità.
“I due linguaggi” sempre riprendendo Cacciari “mettono a nudo il proprio limite, la propria impotenza”.
I due linguaggi dimostrano ognuno l’incorporeità della visione opposta, annullandosi a vicenda; decretando la fine di ogni speranza di ricongiungimento tra ideale e reale.


La recente edizione Adelphi presenta in appendice un interessante saggio di Massimo Cacciari.
Cosa chiese John Lennon al produttore George Martin come suono conclusivo di A Day in The Life, a e quindi di chiusura per tutto l’album? La risposta dovrebbe essere facile. Abbiamo visto come nell’ultimo romanzo arturiano l’unico modo per sconfiggere l’alienazione di Eroe e mondo, constatata l’impossibilità di ricongiungere i poli del reale e dell’ideale, sia un movimento violento che porti alla fine della Storia stessa… e abbiamo visto che ormai lo scacco è inevitabile dato che i due piani dell’ideale e del reale sono per loro stessa natura inconciliabili.
E dunque, cosa chiese Lennon? Semplice…
“Un suono come la fine del mondo”.
DOPO SGT. PEPPER

Il 27 Agosto 1967 si spegne il solo uomo forse ancora in grado di dare unità ed energia a John, Paul, Ringo e George; Brian Epstein, manager e grande amico dei quattro, muore per overdose di anticonvulsivanti e alcool, dando un’ulteriore scossa al già provato universo beatlesiano.
Qualche mese dopo, a Novembre, esce Magical Mystery Tour. L’ultimo tentativo dei Beatles di dare vita a un’opera omogenea; un “concept album” diremmo adesso.
I Beatles, nel booklet e nel film che accompagna l’uscita del disco, sono travestiti da maghi e osservano il mondo dall’alto. Come se, dopo la disintegrazione del mondo di Sgt. Pepper, fossero tornati alla realtà e avessero acquisito nuovi poteri.

Se diamo per vera la teoria di Soffritti non possiamo che citare il solito Joseph Campbell in una delle sue più celebri frasi: “In assenza di un’efficace mitologia comune, ognuno di noi ha il suo pantheon di sogni privato, non riconosciuto, rudimentale, ma segretamente potente”.
Per Soffritti l’intero lavoro potrebbe essere visto come un rituale iniziatico che ruota introno ai motivi di morte e rinascita. I Beatles sarebbero in questa fase in cerca di una nuova identità di gruppo; ma il tutto naufraga perché in realtà non si riesce a instaurare un vero dialogo con la vecchia comunità dello “you”. Magical Mystery Tour resta, per restare sulle parole di Soffritti, “una celebrazione dei sogni privati (e delle loro alienazioni aggiungerei) dei Beatles”.
Altri due pezzi importantissimi per la nostra analisi sono The Walrus (composta da Lennon) e The Fool On the Hill (McCartney).
Io sono lui
Come tu sei lui
Come tu sei me
E noi siamo tutti insieme
(The Walrus)
John Lennon

Ian MacDonald scrive, a proposito di The Walrus, che il pezzo si chiude nello stile di Laing (chiamato spesso in causa anche da Soffritti, vorrei puntualizzare) perché l’autore è conscio del fatto che la sua pazzia più reale di quanto lo siano i costumi repressivi di un mondo insensato. L’incipit del brano, sopracitato, può portarci a pensarla allo stesso modo. Vi possiamo infatti facilmente scorgere le parole di un altro passaggio dell’Io Diviso:
In breve, lui [il malato] non può essere me e io non posso essere lui.[…] La mancanza del senso di autonomia implica che egli senta il proprio essere avvolto nell’altro, o viceversa, in modo da trasgredire la realtà della struttura dei rapporti umani. Significa che in luogo di un senso di rapporto e di attaccamento nei confronti dell’altro, fondato su di una genuina reciprocità, si ha la sensazione di essere in uno stato di dipendenza ontologica, cioè si dipende dall’altro per esistere, e che il totale distaccamento, il completo isolamento è la sola alternativa ad un attaccamento da ostrica, […] in cui il sangue e la vita dell’altro sono necessari per la propria sopravvivenza, ma al tempo stesso la mettono in pericolo. Perciò anziché la separazione e il rapporto, i due poli sono il completo isolamento e la completa fusione dell’identità.
Ronald Laing
Se John rappresenta la parte della “fusione” alienata, McCartney, dalla sua, sembra inscenare l’altra faccia della medaglia e, in The Fool On The Hill, dipinge una figura sprofondata nella più completa solitudine.
Giorno dopo giorno, solo su una collina,
l’uomo dal folle sorriso se ne sta lì imperturbabile.
Nessuno vuole avvicinarlo
perché possono solo vederlo come un folle
che non dà mai una risposta.Ma il folle sulla collina guarda il sole che tramonta
e con gli occhi della mente segue il mondo che gira in tondo.Fermo in mezzo alla strada, la testa tra le nuvole,
L’uomo dalle migliaia di voci parla chiaramente.
Ma la gente non lo ascolta e lui sembra non accorgersene.[…]
Nessuno gli vuol bene,
nessuno capisce cosa voglia fare,
né lui lascia trapelare i suoi sentimenti.[…]
Lui non li ascolta mai,
sa che i folli sono loro,
perché lui non gli piace[…]
Paul McCartney
Naufragato l’utopico tentativo di Sgt. Pepper i Beatles si ritrovano nella stessa, identica, alienata condizione di prima.
WHITE ALBUM, UN PALLORE MARMOREO

22 Novembre 1968, il White Album fa la sua comparsa sugli scaffali dei negozi di dischi.
L’album dal punto di vista della composizione delle canzoni, si presentava più come un lavoro di solisti che come il prodotto di una band. “Per la prima volta”, scrivono Casalini e Corticelli, “le personalità di Lennon e McCartney non trovano un punto di equilibrio”.
Dopo i tentativi falliti di Sgt. Pepper e Magical Mystery Tour cade definitivamente per i Beatles la speranza di ricostituire un’unità di fondo, tra loro stessi e nel mondo che li circonda. Il concetto è ben delineato nella Glass Onion lennoniana, dove l’universo Beatles, con chiari riferimenti a pezzi del passato, viene fatto a brandelli.
Ritornando a un’analisi più generale:
C’è, in questa musica, una segreta inquietudine che tradisce il tumulto nascosto dalla facciata di normale attività esibita dal gruppo. Le ombre si allungano sull’album man mano che questo avanza: è il lento declino della carriera dei Beatles.
Ian MacDonald
La copertina è tutta bianca, nessun titolo; solo una scritta: The Beatles. Tutto il contrario della polifonia di colori pepperiana.
Ian MacDonald scrive che la scelta di Richard Hamilton (l’illustratore) può venire solo dal fatto che egli non abbia ascoltato l’album. Secondo il critico britannico la chiarezza della copertina striderebbe con le atmosfere di “custodita intimità” delle canzoni, dove si raggiungerebbe “una tenebra […] disturbante e indeterminata”.
Ebbene, non potremmo essere più in disaccordo.

Non si può dubitare che la qualità visibile nell’aspetto dei morti che più atterrisce chi guardi, è il pallore marmoreo che vi si posa: come se davvero quel pallore fosse altrettanto segno della costernazione nell’altro mondo, quanto della trepidazione mortale in questo. E da quel pallore dei morti noi prendiamo il significativo colore del sudario in cui li avvolgiamo. Nemmeno nelle nostre superstizioni manchiamo di gettare lo stesso niveo mantello intorno agli spettri, tutti i fantasmi sorgendo in una nebbia lattiginosa. Si, mentre ci prendono questi terrori – bisogna aggiungere – il re stesso del terrore, com’è personificato dall’evangelista, monta un suo cavallo pallido.
[Moby Dick]
Herman Melville
il nome “ufficiale” del White Album è, paradossalmente, The Beatles. E l’unica cosa che appare nel retro della copertina sono i volti, ben separati tra loro tramite delle cornici, di John, Paul, Ringo e George.
Tutto ci spinge a identificare il disco a una lapide, a una sorta di sudario calato sopra i corpi di coloro che, solo un anno prima, avevano cercato di dare vita all’utopia di Pepper.
LA FINE?
Let It Be è stato l’ultimo album dei Beatles a essere pubblicato; alla sua uscita la collaborazione dei quattro di Liverpool era già terminata da parecchio e il materiale del disco precedeva (a parte per un eccezione che vedremo in seguito) per data di registrazione i brani di Abbey Road.

Ormai è chiaro che continuare a ricercare espedienti per rivitalizzare qualcosa di morto non è più possibile. Bisogna agire concretamente e ricreare in tutto e per tutto l’atmosfera degli esordi.
L’idea è di Paul; tornare alle radici del gruppo. Bisogna tornare a fare musica “live” e reinstaurare un rapporto sincero con il pubblico.
Il risultato fu, appunto, Let It Be. Disco e film (dove compare il famoso concerto sul tetto della sede della Apple).

L’unico modo per sconfiggere realmente l’alienazione, in linea con il percorso a ritroso laingiano, è quello di ritornare alle proprie origini (il progetto originariamente, in fondo, doveva chiamarsi Get Back).
Alcuni passi estrapolati dall’immancabile MacDonald sono indicativi:
Paul aveva sempre avuto la sensazione che, rinunciando alle tournée e limitandosi soltanto ad incidere dischi, i Beatles avessero tradito la fiducia del pubblico al quale, in fondo in fondo, dovevano tutto.
Il titolo provvisorio del progetto, che rispecchiava chiaramente il loro desiderio di riscoprire le proprie radici, era Get Back. Per suggerimento di John, essi fecero perfino una fotografia che li inquadrava mentre guardavano giù dallo stesso balcone della copertina del loro primo allegro LP “proletario”.
Era come se, per riscoprire sé stessi come musicisti, essi si sottoponessero a una nuova prova di resistenza analoga a quella che per loro era stata Amburgo; e come se cercassero di riattivare quelle vecchie, sane energie con una musica che si estendeva s ritroso fino alla loro nascita collettiva.
Il progetto, nonostante alcuni pezzi divenuti leggendari non riuscì ancora una volta nel suo intento. La magia non si ricreò. Gli attriti erano sempre più evidenti tra i componenti della band e ormai ognuno pensava ai propri affari.
L’ultimo brano registrato in assoluto dai Beatles durante la loro vita comune fu una canzone dal titolo e dal testo emblematico, scritta da George Harrison: I, Me, Mine; un canto di denuncia contro l’egoismo che annienta ogni cosa.
E in fondo fu l’egoismo, il contrario di quello che era un armonioso e positivo stare insieme, a distruggere il destino comune di quattro ragazzi che in pochi anni avevano scalato la vetta del mondo.
Ma non è
questa la fine della storia.
I Beatles, paradossalmente, riuscirono a trovare infine la strada per quel
contatto che andavano cercando proprio mostrandosi per la prima volta dopo
tanto tempo nella Verità, annunciando il loro definitivo tramontare e sfilandosi
la maschera che li aveva posseduti fino a quel momento. Tutto questo è, infatti,
Abbey Road.
ABBEY ROAD, LA CADUTA DELLA MASCHERA

C’era una volta una strada per tornare verso casa,
c’era una volta una strada per tornare a casa,
dormi bel tesoro, non piangere,
e io canterò una ninna nanna
Sogni d’oro riempiano i tuoi occhi,
ti sveglino sorrisi quando al tuo risveglio,
dormi bel tesoro, non piangere,
e io canterò una ninna nanna
(Golden Slumbers)
I Beatles tornano a parlare schiettamente e consolatoriamente al loro pubblico. Non è possibile tornare a casa.
Let It Be era stato solo un altro camuffamento, l’ultima bugia
In You Never Give Me Your Money (che tratta proprio il tema della separazione e dei suoi inevitabili risvolti economici) udiamo di “un dolce sogno” che “s’avvera oggi”. Ed è questo il momento in cui, secondo Soffritti, i Beatles lasciano cadere la “maschera da eroi dai mille volti”.
“Oh, che magnifica sensazione, nessun posto dove andare” si era sentito dire poco prima nello stesso pezzo.
Abbey Road è un consapevole canto del cigno, un addio in grande stile.
Ragazzo, dovrai portare quel peso,
portare quel peso a lungo.[…]
Non ti do mai il mio cuscino
ti mando solo i miei inviti
e nel mezzo delle celebrazioni…
crollo.Ragazzo, dovrai portare quel peso,
portare quel peso a lungo.[Carry That Weight]
Paul McCartney
Secondo MacDonald il testo potrebbe essere una predizione delle carriere dei singoli Beatles dopo lo scioglimento. Ognuno di loro dovrà fare i conti con un’esperienza a cui nessuna carriera solista potrà fare la minima ombra, e che sarà un segno indelebile per tutta la vita.
L’ultima canzone dell’ultimo album non può che portare un nome.
The End.
Nei primi versi del brano si insinua una domanda a cui non verrà mai data risposta:
Oh Yeah, all right, are you gonna be in my dreams tonight?
L’analisi di Mellers sembra azzeccatissima. Queste parole coprirebbero, in un colpo solo, “la spensierata euforia delle origini, la relazione amorosa della fase intermedia e i sogni interiori degli ultimi giorni”.
I Beatles, ancora una volta, si stanno rivolgendo a noi.
Nella frase si può scorgere un movimento che porta l’attenzione da un’estasi comunitaria a un egoistico ripiegamenti su se stessi.
E infine la notte, luogo privilegiato della solitudine e del ricordo.
Ma il messaggio finale non è questo in fondo.
Ci sono ancora i ventiquattro “Love you” cantati in coro dai Beatles. I Fab Four, poi, prima del finale, eseguono degli assoli di chitarra alternandosi tra loro. Ringo, invece, s’era divertito in apertura del brano a cimentarsi nel primo assolo stereofonico della sua carriera.
A chiudere le indimenticabili parole di Paul:
E alla fine
l’amore che ricevi
è uguale all’amore che dai.
Come a sottolineare che il rapporto reciproco tra Beatles e pubblico, auto alimentandosi, travalicherà facilmente i confini della stessa esperienza beatlesiana, che sta avviandosi verso la fine. Che quello che loro hanno dato tornerà a loro come quello che noi abbiamo dato, e che daremo, tornerà, semplicemente, a noi.
Her Majesty è il pezzo che chiude realmente l’album. Appare dopo uno stacco di parecchi secondi da The End e la sua posizione è dovuta puramente al caso. Soffritti, visto che i versi si riferiscono alla Regina, parla di disinvolta parodia dell’istituzione e del mondo conservatore. Il pezzo avrebbe la funzione di ridimensionare la solennità barocca di The End e di rendere il testamento del gruppo qualcosa di serio e non serio allo stesso tempo, una tragicommedia come quella inscenata sulla copertina di Sgt. Pepper. Soffritti in realtà è fuori strada, visto che Her Majesty altro non è che uno scarto che un tecnico del suono aveva messo da parte e che non era stato rimosso quando Paul aveva ascoltato il disco per la prima volta. Sir McCartney fu piacevolmente colpito dall’effetto della cosa e lasciò tutto così com’era. Nonostante ciò, l’interpretazione soffrittiana, come tutte quelle proposte fino a ora, è troppo suggestiva per farla cadere del tutto.
LA CHIUSURA DEL CERCHIO?

Nel 1995 esce l’Anthology. Il progetto propone materiale audio, editoriale e video in parte mai pubblicato prima.
Il primo dei tre doppi cd si apre con una canzone scritta da Lennon prima di morire. Gli altri tre Beatles ci lavorano sopra. Paul partecipa con la stesura di alcune parole [in corsivo nel testo seguente] che vanno a integrare le strofe di John.
Il risultato, riprendendo Russino (Le canzoni di John Lennon, 2000), è “una riflessione sull’eccezionale avventura dei Beatles, riconosciuta irripetibile dagli stessi protagonisti. Un’esperienza assolutamente unica, che solo loro quattro possono comprendere nel loro significato più profondo”.

Libero come un uccello
È la cosa migliore
Libero come un uccello
A casa all’asciutto
Volerò come un uccello che torna a casa
Come un uccello, ad ali spiegateCosa è mai accaduto alla vita che conoscevamo una volta
Ma davvero possiamo vivere l’uno senza l’altro?
Dove abbiamo perduto quel contatto
Che per noi ha sempre significato così tanto?
Mi faceva sentire sempre così libero[Free As A Brid]
The Beatles

Quando si è
perso quel tocco?
Quel tocco che rendeva i Beatles una cosa sola e che li rendeva allo stesso una
cosa sola con il loro pubblico?
Il video che accompagna il pezzo è una celebrazione di tutte le icone
dell’universo beatlesiano.
La “casa”, metaforicamente, è ancora il luogo a cui bisogna tendere.
I Beatles sono ancora consapevoli del fatto che l’unica speranza per l’avvento dell’Eden, della libertà, è riposta nella semplicità del contatto privo di mistificazione vissuto nella loro prima fase.
L’Anthology, dopo aver preso in rassegna cronologicamente tutto l’arco temporale della produzione beatlesiana, termina con la rievocazione dell’accordo conclusivo di A Day In The Life, l’accordo che mette fine alla storia (e alla Storia). L’uccello che vola verso casa è ora una figura perfettamente compiuta nel suo eterno vagare; lo stesso vagare a cui sarà costretto il marinaio di Coleridge. Egli, infatti, non potrà mai redimersi dalla colpa di aver interrotto, con l’insensata e gratuita uccisione del gabbiano, la catena amorosa che dovrebbe coinvolgere tutti gli esseri del creato.
Ho la sensazione che noi quattro avessimo una certa magia e fossimo telepatici. […] Noi siamo stati onesti gli uni con gli altri, e siamo stati onesti con la musica. La musica era positiva, era positiva nell’amore. Hanno scritto – tutti noi abbiamo scritto – altre cose, ma il messaggio di fondo dei Beatles era: Amore.
Ringo
6 Comments
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Ho letto il libro di S nei primi anni 80. Mi è sempre rimasto in mente come il più interessante commento sulla storia e le canzoni dei 4. L’ho da poco “riesumato” e continuo a pensare che sia così. Molto interessante anche la tua reinterpretazione.
Grazie Giorgio!
Si… al di là di qualche forzatura il libro è veramente interessante. Soprattutto se si tiene conto del “messaggio” che troviamo in Free As a Bird, che, appunto, chiude il cerchio.
Sarebbe stato bello fare due chiacchiere con l’autore, tutto quello che ho scritto in merito ai Beatles lo devo in un modo o nell’altro a lui. Purtroppo ci ha lasciati anni fa.
A presto.
Già. Mi pareva strano avesse scritto solo quel libro. Poi ho trovato una specie di necrologio. Penso 1993. Comunque è molto interessante capire le relazioni tra la scrittura (che è anche la
vita) dei 4 in relazione alla cultura, letteraria e
non. Cercherò di approfondire. Ciao
Ciao Giorgio,
se sei in cerca di consigli ti inviterei a iscriverti al gruppo Facebook “Beatlesiani d’Italia”, pieno di gente molto competente, sia in ambito musicale che in ambito più prettamente “letterario”.
Per quanto riguarda i “miei” consigli temo di aver esaurito tutte le cartucce nell’articolo che hai letto. Se mi viene in mente qualcosa di veramente rilevante ti riscrivo.
A presto!
Una valutazione complessiva del “mito” Beatlesiano che contiene molti elementi di verità. Oltre la qualità musicale dei loro brani (elevatissima) essi hanno interpretato un’epoca, il costruirsi di un sogno e il suo svanire (un mondo disegnato dai giovani, senza storia e violenza, solo amore e trasparenza). Non si possono capire gli anni Sessanta senza la musica dei Beatles. Il perdurare del loro fascino è dovuto anche a questo “sogno”. In un certo senso il sogno degli anni Sessanta non si è realizzato (né si realizzerà) ma anche non morirà. La loro è, come giustamente dici, una dimensione “mitica” anche nella parabola discendente fino allo scioglimento cui non hanno cercato di rimediare con “riunioni” artificiali e commerciali post mortem che avrebbero gettato una luce sinistra sulla spontaneità e la sincerità del loro percorso.
Ciao Paolo,
perfettamente d’accordo con tutto quelllo che hai scritto.
La frase “il songno non si realizzerà mai, ma neanche morirà” è azzeccatissima… incarna alla perfezione l’insanabile contraddizione interna di questa meravigliosa parabola.